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LA CULTURA ARETUSEA DEL CIBO

La cucina di una società è il linguaggio con cui quella società traduce inconsciamente la sua struttura, a meno che, senza saperlo, non si rassegni a svelare le sue contraddizioni.
Claude Lévi – Strauss L’origine des manières de table, Paris 1968
 
Non si contano i manuali e i saggi che indagano sulle motivazioni che hanno spinto i greci a fondare in una manciata di secoli oltre un centinaio di colonie tra l’Egeo, il Mar Nero e il Mediterraneo. Il mondo accademico ha identificato un corposo ventaglio di moventi per tentare di chiarire le ragioni di questa intensa colonizzazione: di natura politica, militare, espansionistica, commerciale, climatica, demografica. Molte di queste sono le stesse che muovono da uomini di ogni parte del mondo verso nuove e meno dure condizioni di vita, per sottrarsi a contesti di violenza e guerra, a persecuzioni politiche o ideologiche, a prospettive di miseria o degrado. La storia si ripete con una costante, quella del primo e istintivo desiderio del migrante: il cibo, al suo sbarco e per il futuro. Nessuno è libero fino a quando la fame non sia placata, e nessuno è in grado di progettare e costruire una civiltà senza acqua e terra da cui trarre sostentamento.
La vicenda storica nel bacino del Mediterraneo inizia in Sicilia, l’isola al centro di tre continenti, in cui esuli e viaggiatori di ogni tempo hanno sempre trovato - e ancora trovano - accoglienza, ristoro e prospettive future. L’ecista Archia, mitico fondatore di Siracusa, non andava certo verso l’ignoto, perché di quella “terra del desiderio” dove crescevano grano, ulivi e viti ne aveva avuto notizia forse dai naviganti fenici che da secoli commerciavano in tutto il Mediterraneo. Soprattutto quell’isola, che sarà poi chiamata Ortigia, aveva tutte le caratteristiche necessarie per insediarvi una nuova città: era in una posizione vantaggiosa e ben difendibile, offriva facili approdi al riparo dai venti, si affacciava su un mare pescoso, possedeva una fonte d’acqua dolce e la sua terraferma era ricca di boschi, pascoli e pianure coltivate.
Quei caratteri originari sono rimasti immutati nel tempo, così come il senso un po’ antico-greco dell’ospitalità dei siracusani, il “garbo” e la cortesia che un po’ li distingue dagli altri siciliani. Ci si potrebbe chiedere perché una terra così ricca e accogliente, dichiarata patrimonio dell’Umanità, baciata dalla storia, dal mare e dal sole, con estati lunghissime, panorami mozzafiato e al centro del mare più bello e ambito al mondo, non sia in testa alle graduatorie turistiche italiane. La risposta sta nel fatto che Siracusa e il suo territorio non rispondono alla logica della vacanza mordi-e-fuggi, al turismo di massa avido e frettoloso, sguaiato e insensibile. Il suo genius loci - quella sorta di “spiritello” che miscela l’identità fisica e culturale - parla solo a chi accetta il suo invito a percorrere sentieri inusuali, a sintonizzarsi con la storia, con le persone e con la cultura.
Anche a tavola Siracusa è un’altra Sicilia. Qui si percepisce poco l’influenza gastronomica araba o i prestiti francesi e spagnoli così evidenti nel palermitano e nel trapanese, né è preponderante il legame alla terra e alle radici contadine che si riscontra a Enna, Caltanissetta e Agrigento e ancor meno vincono i contrasti di sapori e la ricercatezza del messinese. C’è il sospetto che, anche nel piatto, il siracusano sia rimasto devoto all’antica koinè greca, costruendosi nei secoli un ricettario comprensibile e mai ardito, semplice senza essere rigoroso, elegante ma non sofisticato.
Porto grande di Siracusa- da ” Voyage pictoresque” di R.Saint-Non-Paris 1781/86.
Basso Rilievo dall'Isola Sacra, Ostia. (Foto di DEA / A. DAGLI ORTI/De Agostini via Getty Images)
 
Fu a Siracusa che la cucina austera e temperata dei Greci si trasformò in arte. Sappiamo da Polèmone di Atene, geografo e viaggiatore al tempo delle Guerre Puniche, che in Sicilia i greci avevano fondato un tempio dedicato alla dea della golosità Adefagìa, preposta anche alla protezione dei cuochi (megeiros). Non è dato sapere dove fosse questo santuario (citato quattro secoli più tardi dal filosofo Claudio Eliano) ma è probabile si trovasse proprio a Siracusa che già dal V secolo a.C. era nota come capitale gastronomica del Mediterraneo, patria dei primi cuochi professionisti e sede della più antica scuola di cucina. Ricca di informazioni sui cuochi siracusani dell’antichità è la ponderosa opera Deipnosofisti (I filosofi a banchetto) redatta nel II secolo d.C. da Ateneo di Naucrati. È lui che, assieme a Platone, Aristofane e Gorgia, ci tramanda il nome del primo “chef” conosciuto, Miteco di Siracusa, autore di un ponderoso ricettario intitolato “Del cuoco siciliano” di cui ci resta purtroppo un’unica ricetta per la cèpola, un pesce “povero”, rosso, di forma allungata: “Tagliagli la testa. Lavalo e fallo a tranci. Ricoprilo di formaggio e olio e cuocilo.”. A dispetto di tanta semplicità, per il sofista Massimo di Tiro, Miteco era tanto grande come cuoco quanto Fidia come scultore. Viaggiò a Sparta ad insegnare la sua arte diffondendo i principi dei bilanciamenti dei sapori e degli ingredienti ma incontrò la resistenza dei cuochi spartani, secondo i quali la sua cucina enfatica e sofisticata, ricca di condimenti e salse elaborate, mal si adattava alle loro sobrie consuetudini alimentari. Ebbe però miglior fortuna ad Atene.
L’opera di Ateneo ci tramanda anche ampi stralci della Hedypatheia (I piaceri della gola) di Archestrato, poeta gelese-siracusano del IV secolo, polistor (di grande cultura), probabile allievo del gastronomo Terpsione, ritenuto precursore di Epicuro e che dice di se stesso di aver viaggiato in ogni terra e su ogni mare per conoscere i cibi e i vini migliori. Di lui dice il medico Dafno di Efeso:
Archestrato fece un viaggio per il mondo per saziare sia lo stomaco che altri più bassi appetiti, e disse: ‘Mangia una fetta di tonno Siciliano, al tempo del taglio per essere salato e messo in giare. Però il pesce persico, l'aroma del Ponto, io bene affiderei alle regioni basse, così come fa chi lo loda. Poiché pochi sono tra i mortali coloro che lo ritengono un misero boccone. Mantieni, comunque, uno sgombro tre giorni fuori dall'acqua, prima che inizi la salamoia, ancora fresco in giara e solo mezzo salato. E se tu andrai nella splendida città di Bisanzio, mangia ancora - ti prego - una fetta di horaion, perché esso è proprio succulento”.
Deipnosofisti di Ateneo di Naucrati-edizione cinquecentesca
Archestrato, Incisione fantasiosa del XIX sec.
 
Considerata la capostipite di tutte le guide turistico-gastronomiche, Hedypatheia non si ferma alle ricette e alle diverse tecniche culinarie ma esalta la “denominazione d'origine” dei prodotti, dalla farina al pane, dal vino alla selvaggina e specialmente del pescato, di cui indica le qualità migliori, i luoghi da cui provengono i più fini e la stagione in cui sono più intensi e saporiti. “Nel tempo in cui Orione si trova nei cieli, e la madre dei raccoglitori di vino inizia a disperdere le proprie trecce, allora abbi un sarago infornato, cosparso di abbondante, caldo, formaggio, e sferzato da mordace aceto, poiché tale pesce ha polpa coriacea. Ricordati perciò di condire in tale modo ogni pesce duro. Ma il pesce naturalmente tenero, di ricca polpa, aggiustalo solo di sale e olio, poiché esso ha solo in sé stesso ogni gioia”.
In quanto ai metodi per ottenere queste prelibatezze, qualora il mercante non sia disponibile a venderle nemmeno a peso d’oro, Archestrato suggerisce di minacciare la vendetta divina, ricorrere al furto e, se non vi è altro modo per averli, essere disposti ad affrontare la morte. Su una cosa Archestrato - e non è il solo - si dimostra molto critico nei confronti dei cuochi aretusei, l’uso del formaggio e del silfio (la resina di una specie di finocchio gigante oggi estinto) sul pesce. Così avverte il lettore:
…non permettere che Siracusani o Greci d'Italia ti stiano accanto quando ti dedichi a questo piatto, poiché essi non sanno preparare un buon pesce, preferendo sciuparlo riversandogli formaggio, e inzuppandolo d'aceto e salamoia a base di silfio.
Archestrato di Gela, autore del primo libro di ricette con pesce e formaggio
 
Siracusano fu Eraclide, scrittore-gastronomo di cui ci restano pochi frammenti; Trimalchio, cuoco ambito dalle famiglie più abbienti e Labdaco, accademico e maestro dei cucinieri di tutta la Grecia, fondatore assieme al già citato gastronomo Terpsione, di una rinomata scuola alberghiera.
I ricettari gastronomici e le scuole di cucina dei coquis siculis siracusani furono popolarissimi e spesso “chiacchierati” in tutto il mediterraneo per secoli. Non meno lo fu la fama di raffinati (e gagliardi) buongustai dei cittadini della polis. Nella Grecia di Pericle le tavole raffinate erano definite “mense siracusane” e “siracusani” erano detti i banchetti in cui si ostentava abbondanza di piatti e preparazioni. Testimoni del lusso e dell'opulenza aretusea furono tra gli altri Diogene il Cinico, Aristotele, Aristofane e Strabone. Platone, che considerava il cibo il nutrimento dell'anima, si univa a quelli che accusavano i siracusani di mangiare troppo, troppo spesso e troppo condito.
Non meno rinomati dei cuochi e delle loro specialità, furono nell’antichità i vini siracusani, elogiati tra gli altri da Aristotele, Teofrasto e Plinio il Vecchio, mentre non si contano le raffigurazioni di uva, viti e vino su coppe, crateri e anfore sparse su tutte le aree archeologiche siracusane. Ieri come oggi la giacitura prevalente del vigneto siracusano è di pianura e bassa collina con suoli ricchi di elementi minerali, beneficati dai venti marini che apportano sapidità e da trecento giorni l’anno di sole. Né fa difetto l’acqua anche durante la stagione calda, come dimostra l’erosione dei “canyons” di Pantalica, Cavagrande del Cassibile e Cava d’Ispica.
Dell'antico Vino Pollio Siracusano
 
La passione per il vino valse ai siracusani la fama di smodati bevitori, al punto che lo stesso Archestrato non esitò a definirli “ranocchi”:
Al banchetto si va per mangiare e non solo per bere, come fanno quei ranocchi dei Siracusani, che bevono vino e solo vino e non mangiano alcunché.”
Si ha notizia di una vite “byblia”, originaria della Tracia, intensamente coltivata a Siracusa già nel VII secolo. Da questa uva, che Columella classifica come “apiana” per il sapore dolce come il miele, si otteneva un vino bianco, dolce e aromatico - riconducibile alla grande famiglia dei moscati - conosciuto come Pollio, dal nome di un presunto tiranno cittadino. Secondo lo storico Saverio Landolina Nava, da questa varietà originerebbe il Moscato di Siracusa che ancora rappresenta una preziosa rarità nel panorama dei vini dolci e da meditazione siciliani, l’ideale complemento ai gioielli della pasticceria aretusea: i “totò”, le “cassatedde” e la “giuggiulena”.
Febbraio 2021
 
Sergio G. Grasso

Da giovane, doppiava per il cinema attori del calibro di Orson Welles e Jeff Goldblum. Autore e conduttore televisivo, ha lavorato a programmi Rai come Unomattina, Lineaverde e La prova del cuoco. È docente di Antropologia dell’alimentazione, food-writer, cultore e divulgatore di storia sociale del cibo, curatore di eventi gastronomici legati alle rappresentazioni del cibo nell’arte. Scrive e fa parte della direzione editoriale di SiracusaCulture.