Fu a Siracusa che la cucina austera e temperata dei Greci si trasformò in arte. Sappiamo da Polèmone di Atene, geografo e viaggiatore al tempo delle Guerre Puniche, che in Sicilia i greci avevano fondato un tempio dedicato alla dea della golosità Adefagìa, preposta anche alla protezione dei cuochi (megeiros). Non è dato sapere dove fosse questo santuario (citato quattro secoli più tardi dal filosofo Claudio Eliano) ma è probabile si trovasse proprio a Siracusa che già dal V secolo a.C. era nota come capitale gastronomica del Mediterraneo, patria dei primi cuochi professionisti e sede della più antica scuola di cucina. Ricca di informazioni sui cuochi siracusani dell’antichità è la ponderosa opera Deipnosofisti (I filosofi a banchetto) redatta nel II secolo d.C. da Ateneo di Naucrati. È lui che, assieme a Platone, Aristofane e Gorgia, ci tramanda il nome del primo “chef” conosciuto, Miteco di Siracusa, autore di un ponderoso ricettario intitolato “Del cuoco siciliano” di cui ci resta purtroppo un’unica ricetta per la cèpola, un pesce “povero”, rosso, di forma allungata: “Tagliagli la testa. Lavalo e fallo a tranci. Ricoprilo di formaggio e olio e cuocilo.”. A dispetto di tanta semplicità, per il sofista Massimo di Tiro, Miteco era tanto grande come cuoco quanto Fidia come scultore. Viaggiò a Sparta ad insegnare la sua arte diffondendo i principi dei bilanciamenti dei sapori e degli ingredienti ma incontrò la resistenza dei cuochi spartani, secondo i quali la sua cucina enfatica e sofisticata, ricca di condimenti e salse elaborate, mal si adattava alle loro sobrie consuetudini alimentari. Ebbe però miglior fortuna ad Atene.
L’opera di Ateneo ci tramanda anche ampi stralci della Hedypatheia (I piaceri della gola) di Archestrato, poeta gelese-siracusano del IV secolo, polistor (di grande cultura), probabile allievo del gastronomo Terpsione, ritenuto precursore di Epicuro e che dice di se stesso di aver viaggiato in ogni terra e su ogni mare per conoscere i cibi e i vini migliori. Di lui dice il medico Dafno di Efeso:
“Archestrato fece un viaggio per il mondo per saziare sia lo stomaco che altri più bassi appetiti, e disse: ‘Mangia una fetta di tonno Siciliano, al tempo del taglio per essere salato e messo in giare. Però il pesce persico, l'aroma del Ponto, io bene affiderei alle regioni basse, così come fa chi lo loda. Poiché pochi sono tra i mortali coloro che lo ritengono un misero boccone. Mantieni, comunque, uno sgombro tre giorni fuori dall'acqua, prima che inizi la salamoia, ancora fresco in giara e solo mezzo salato. E se tu andrai nella splendida città di Bisanzio, mangia ancora - ti prego - una fetta di horaion, perché esso è proprio succulento”.