Ritornando a tempi a noi più vicini, sebbene la ricorrenza del 2 novembre sia a carattere universale, è indubbio come in Italia sia la Sicilia la terra della festa dei morti, svelando ancora una volta quel carattere stratificato delle sue tradizioni, in cui l’archeologia, l’arte e le tradizioni popolari si uniscono in un unico canto.
L’area del siracusano, in particolare, è stata caratterizzata da una tradizione forte e specifica come testimoniato dal patrimonio, materiale e immateriale, raccolto dentro la Casa Museo di Antonino Uccello a Palazzolo Acreide, o la rete dei quattordici “Ecomusei degli Iblei”.
Protagoniste sono state le comunità agropastorali e quei “pani e dolci” (ricordando Antonino Uccello) confezionati per cibare l’anima dei vivi e dei morti, fatti di sostanza ma soprattutto di forma. Ed è così che è possibile ricostruire il valore magico riconosciuto al cibo attraverso il formato, “iconico o aniconico”. Se per i morti, guidati dai lumini accessi, venivano imbandite nelle case tavole ricche e abbondanti perché potessero sfamarsi senza arrecare danno alcuno ai vivi, anche questi ultimi avevano bisogno di entrare in comunione con loro. L’importanza del contatto diretto e fisico è testimoniata in diverse occasioni dalla fede popolare, come per gli “abitini”; allo stesso modo dunque, il cibo e la sua consumazione erano in grado di soddisfare il desiderio di “ritoccare” i morti. Ciò poteva avvenire consumando cibi con forme umane. Le marmellate di mele cotogne, le ossa dei morti, a forma di tibie, i totò*, bianchi e neri, erano il mezzo attraverso cui potesse avvenire simbolicamente il gesto di “mangiare i padri”, di compiere quel rito di patrofogia simbolica, appunto.