“Territori e paesaggi scartati”

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Ph. © Marcello Bianca

Territori e Paesaggi Scartati

 
Nell’aprile 2020, subito dopo l’insorgere in Italia e nel mondo del contagio da Covid-19, la rivista Micromega ha pubblicato un articolo di Fausto Carmelo Nigrelli dal titolo “I territori e i paesaggi scartati come risorsa”. La sua analisi coincide pienamente con la nostra visione e ringraziamo il Professor Nigrelli per averci gentilmente concesso di riprodurne uno stralcio.
 
… Negli ultimi giorni un gruppo di scienziati, architetti e informatici di cui il Frontman è Massimiliano Fuksas, ha scritto al presidente Mattarella chiedendo che nella fase di ripartenza si metta mano alla riprogettazione delle case, dei luoghi di lavoro, degli ospedali. Tutte cose necessarie, non c’è dubbio. Ma che non servono a ridurre i rischi derivanti dalla iperconcentrazione di uomini, attività, mezzi, funzioni. Servono semmai a facilitare la cura della malattia quando questa è esplosa.
E Stefano Boeri, autore di quel “bosco verticale”, grattacielo che assorbe CO2 e produce ossigeno a costi non proprio ridotti per chi ci abita, ha ipotizzato un “grande progetto nazionale” che, oltre che intervenire sugli spazi dell’architettura, si occupi del ripopolamento dei borghi abbandonati che dovrebbero essere “adottati” dalle 14 aree metropolitane italiane e ha anche ipotizzato l’istituzione di un “ministero della dispersione”.
Anche queste due visioni sono metropolitanocentriche: nel primo caso le aree interne, i borghi, sarebbero quasi dei “giardini di delizie” per quella parte di cittadini metropolitani che, avendo una seconda casa e reddito adeguato, vi si trasferirà utilizzando le potenzialità del lavoro a distanza per periodi più o meno lunghi. Nel secondo l’attenzione viene posta su quella sterminata parte del territorio italiano che è stata invasa, a partire dalla fine degli anni Settanta, da milioni di molecole edificate, per risiedere, per lavorare, per acquistare, per svolgere in forma individuale le funzioni tipicamente urbane e collettive, sfruttando l’automobile come quasi esclusivo mezzo di trasporto. Estrema conseguenza della prevalenza dell’individuo sulla comunità, la città dispersa rischia di avere una seconda vita come risposta alla densità metropolitana.
Anche in questo caso ho l’impressione che il problema debba essere affrontato, ma non costituisce il necessario cambiamento radicale delle politiche che hanno condotto alla débâcle attuale del sistema insediativo europeo e italiano in particolare.
 
Il modello dell’abitare dei prossimi decenni dovrà coniugare: il distanziamento sociale non come imposizione per decreto, ma come adattamento nei comportamenti degli umani conseguente alla nuova condizione di insicurezza percepita; la necessità di socialità e di prossimità dei corpi che, comunque non potrà e non dovrà essere sostituita da quella virtuale; la sicurezza reale di fronte a probabili nuove epidemie.
E potrà e dovrà essere l’occasione per avviare a soluzione il problema di sempre: la diseguaglianza tra nord e Mezzogiorno, tra poli e aree interne.
Una visione che rimetta al centro i “territori/paesaggi scartati” perché non rispondenti al mainstream degli ultimi decenni consentirebbe queste risposte e offrirebbe un originale modello di progresso al Paese. La vita urbana nella provincia italiana, nelle aree interne è ricca di socialità, di solidarietà, di salubrità sconosciute nella vita metropolitana; la rete di valori immateriali e di patrimonio territoriale disseminata fuori dai territori della dispersione urbana è inestimabile.
Così come dopo i terremoti per cinquant’anni si ricostruisce seguendo criteri antisismici e poi, magari, dopo un paio di generazioni, dimenticata la paura, si abbandonano quegli insegnamenti, così credo che per un paio di generazioni la socialità avrà forme inedite. A queste nuove forme di socialità le piccole e medie città delle aree interne e, più in generale, i loro territori offrono il luogo, sperimentato per secoli, in cui tenere insieme rapporti umani e relazioni in remoto. Se c’è qualcosa che la quarantena ha reso evidente è che tanti lavori – soprattutto intellettuali – si possono svolgere in remoto e che, pertanto, non è necessario concentrare nei poli metropolitani funzioni amministrative, legate all’economia della conoscenza, di ricerca; che le reti dei servizi essenziali, a cominciare da quelli sanitari, deve essere capillare e uniformemente diffusa nel territorio; che il commercio di prossimità può avere una seconda chance nello scontro con i mega centri commerciali.
Con l’aggiunta – e non è cosa da poco – di potere immaginare una ripartenza decisa dell’economia primaria, nella logica di una maggiore autonomia dalle importazioni alimentari e di crescita delle filiere corte, e di riprendere, finalmente, la manutenzione del territorio.
Fausto Carmelo Nigrelli