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Sulle strade del gusto

Franca Centaro
Aprile 17, 2021
“Territori e paesaggi scartati”
Aprile 17, 2021
Ph. © Antonio Gerbino

Sulle Strade del Gusto

 
Nata dal mare e sul mare, edificata e fatta grande da genti venute dal mare e che di quello furono padrone per secoli, Siracusa deve la sua grandezza e fortuna alle condizioni geologiche e climatiche del suo territorio, alla ricchezza di acque dolci, alla fertilità del suo entroterra e soprattutto ai suoi porti, tra i più antichi del Mediterraneo. All’apice della sua potenza, doveva sfamare fino a mezzo milione di abitanti incluso un poderoso esercito multietnico che navigava e marciava, per dirla con Giulio Cesare, soprattutto sul proprio stomaco. I moli e le banchine su cui passeggiavano assorti Archimede e Platone, brulicavano di soldati, pescatori e mercanti affaccendati attorno a triremi e navi onerarie. Il grande ventre di Siracusa chiedeva prodotti di ogni genere e provenienza e iniziava a costruire un modello di sincretismo alimentare fatto di viti e olivi dal Peloponneso e da Creta, cipolle dall’Egitto, datteri e fichi dal Maghreb, melograni dalla Persia, garum dalla Spagna e silfio dalla Cirenaica.
Al viaggiatore di oggi che osa perdersi senza meta e orologio per le calate di Ortigia, è sufficiente chiudere gli occhi e drizzare i sensi per catturare nell’aria l’eco delle “abbanniate” di antichi mercanti di carni e granaglie o quelle dei contadini urlanti tra ceste di frutta e verdura. Pare di sentire ancora lo scalpiccio di drappelli di uomini e donne delle più varie estrazioni sociali, aristocratici o popolani, cittadini o immigrati, per le vie della Neapolis o dell’Akradina, che soppesano con lo sguardo gli agnelli e i formaggi dei pastori, le salsicce e le carni secche dei beccai, i panieri di uova o i canestri di olive. Ecco le grida dei pescatori tra la Fonte Aretusa e i pontili, le imprecazioni delle ciurme, le urla dei bambini sulle scalinate del Tempio di Apollo o di Atena, lo strepito assordante dell’arsenale e il sudore acre di schiavi e marinai mescolato al profumo del pane.
Quando quello stesso viaggiatore apre gli occhi, si accorge con stupore che i profumi e i suoni che immaginava frutto di fantasia sono reali, che tutto è ancora tutto lì, appena più famigliare e contemporaneo. Da tempi immemorabili, a Siracusa, frotte di uomini e donne escono di casa all’alba per disporre in bella mostra trionfi di frutta e verdura, fragranze di pani, splendori di pesci e carni, incanti di salumi e formaggi. Ieri in tunica e peplo, oggi in jeans e t-shirt. I loro clienti passano tra banchi e scaffali, guardano, toccano, annusano e comprano i loro oggetti del desiderio gastronomico. Al posto del carretto di legno di Peusippos c’è il furgone di Riccardo, quello che era il banchetto del pesce di Alexis oggi è il negozio di Salvatore, Isidros si chiama Antonio ma vende sempre pecorini e li tira fuori dal banco frigo anziché da una cesta di giunco, le uova hanno di diverso solo enigmatici codici alfanumerici ma sono ancora a “miglio-zero”; c’è meno chiasso, più ordine e forse più igiene ma i profumi del pane, delle spezie e del pesce appena pescato sono quasi gli stessi, forse meno intensi e ben distinti. Lungo l’esuberante ma ordinato Mercato di Ortigia le banniate dei venditori si mescolano ad asettiche cantilene di guide turistiche, risolini di giapponesi, commenti in spagnolo, discussioni in inglese o russo.
 
È la Siracusa del terzo millennio, sempre ospitale, affettuosa, garbata, compiaciuta di sé e perennemente golosa, come si addice a una città in cui le tentazioni per la gola erano un must già ai tempi di Miteco, Labdaco e Terpsione, i maestri aretusei di cucina che inventarono nel V secolo a.C. le prime accademie gastronomiche e che imposero il gusto siracusano anche sulle tavole di Sparta e Atene. Loro emuli, in tono minore, ve ne furono sicuramente ai tempi di Apicio e di Ateneo, altri ancora durante il dominio degli arabi khalabiti, benché i loro nomi non siano giunti fino a noi per una delle tante distrazioni della storia. Nella Siracusa greca e romana il cibo per la prima volta transitò dalla funzione alimentare al piano gastronomico e al piacere edonistico, connotandosi come elemento di classe, buongusto e ricercatezza. Trascorso il periodo bizantino, furono i due secoli di dominazione musulmana ad attuare una vera e propria rivoluzione alimentare destinata a cambiare per sempre il volto dell’agricoltura e della cucina non solo a Siracusa e in Sicilia ma in tutto il Mediterraneo. Gli arabi non solo introdussero nuove tecniche agricole e più efficienti sistemi di irrigazione ma portarono in Sicilia, e da lì all’Europa, prodotti fino ad allora sconosciuti come la canna da zucchero, le mandorle, i pistacchi, gli agrumi, il riso, le melanzane, lo zafferano, gli spinaci, i meloni, nuove spezie e finanche la pasta di semola di grano duro. Insegnarono ai siracusani i fondamenti della frittura, della canditura, dell’essiccazione, della cottura a vapore; introdussero il sorbetto e il torrone, rivelarono i segreti della distillazione e della fermentazione e aggiunsero fascinosi tocchi di colore alle pietanze.
Nella cucina siracusana pastorale e di mare si avvertono più influenze greco siceliote che arabo-bizantine. L’apporto moresco è decisamente notevole in pasticceria, nell’arte fornaria e nello street-food ma è assoluto e inequivocabile nel paniere agricolo, le cui produzioni d’eccellenza sono in gran parte lasciti arabi che hanno approfittato della grande varietà di climi della provincia: l’anguria e il limone di Siracusa, le mandorle di Avola e poi le palme da datteri, i melograni, i carciofi e le melanzane. La patata siracusana, il pomodoro di Pachino, i peperoni a cornetto e gli onnipresenti fichidindia hanno una storia più recente, americana e vincente. Ma vini, carni conservate e formaggi erano già presenti nel territorio ben prima dell’arrivo dei greci, così come il miele degli Iblei, che faceva concorrenza a quello di Creta con cui fu svezzato Giove bambino.
Le strade del gusto siracusane, disegnate dalla storia e impreziosite dal mito, sono un irresistibile invito al gastro-nomadismo, la disciplina del welfare che si esercita dimenticando il telefono e l’orologio nello zaino per percorrere senza meta apparente trazzere tra ulivi e frutteti, vigneti e campi di grano, ruscelli e muretti a secco. I tanti produttori di vino e di olio, di salumi e di formaggi, di frutta e di pasticceria sono lì per mettere tra le mani del visitatore, senza fronzoli o cerimonie, un assaggio dei loro prodotti. Le trattorie e i ristoranti di Siracusa, di Palazzolo Acreide, di Noto, Floridia, Sortino, Ferla o Augusta spalancano le porte a chiunque intenda godere della valentia dei loro cuochi, della freschezza dei prodotti e della professionalità del personale. Perché qui l’ospite è sacro oggi come lo era al tempo dei greci e come è da sempre nel profondo della migliore cultura araba.
Aprile 2021
 
SERGIO G. GRASSO

Da giovane, doppiava per il cinema attori del calibro di Orson Welles e Jeff Goldblum. Autore e conduttore televisivo, ha lavorato a programmi Rai come Unomattina, Lineaverde e La prova del cuoco. È docente di Antropologia dell’alimentazione, food-writer, cultore e divulgatore di storia sociale del cibo, curatore di eventi gastronomici legati alle rappresentazioni del cibo nell’arte. Scrive e fa parte della direzione editoriale di SiracusaCulture.