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Tavola e Teatro

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La Cattedrale di Siracusa
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© Ph. Credits - Pompeii, Villa del Cicerone, dettaglio mosaico

Tavola e Teatro: ardori siracusani

 
Il cibo, le modalità con cui viene lavorato, preparato, il contesto sociale o rituale in cui viene consumato, contribuisce a definire una cultura e a distinguerla da quella degli altri. Fin da Omero ed Esiodo la poesia e la letteratura greca hanno trasformato alimenti e banchetti in pagine immortali in cui il dialogo con le divinità è mediato da sacrifici animali e quello tra gli eroi si snoda tra arrosti e coppe di vino. Da un lato i componimenti lirici fanno del symposion (letteralmente “bere insieme”) la sede di un rito aristocratico collettivo gremito di temi nuovi, di precetti etici, politici e sociali, di discorsi filosofici e sacrali ispirati dal vino; dall’altro i cantori di versi giambici indugiano sui costumi alimentari dei livelli sociali più umili, mescolandoli spesso con l’insulto e l’invettiva.
Una fonte letteraria significativa per ricostruire l’alimentazione del mondo greco è quella drammaturgica e teatrale. Soprattutto la “commedia” che nasce a Siracusa nel VI secolo a.C. ad opera di due autori sicelioti come Epicarmo e Formide, graditi anche a Platone e Aristotele. Insieme scrissero più di sessanta lavori teatrali dei quali sono giunti fino a noi solo i titoli e numerosi frammenti di argomento gastronomico raccolti da Ateneo di Naucrati. Dei loro versi affidati alle voci di attori e cantanti risuonarono a lungo i marmi del Teatro Greco di Siracusa, il più grande e importante del mondo greco-occidentale. Nel V secolo l’eco del successo di questo nuovo e insolito genere così diverso dalla tragedia colta ed epico-lirica, giunse fino ad Atene dove trovò in Aristofane il suo più illustre rappresentante.
Bassorilievo con maschere teatrali
Lastra tombale con scena di symposion
 
Nella commedia antica domina una grammatica popolare, una sintassi di intrighi e doppi sensi, un linguaggio esplicito e mai ossequioso nei confronti di ricchi, aristocratici e autorità cittadine. Proprio per questa sua anima arguta e briosa la commedia antica riflette molti aspetti relativi al cibo. Compare non solo il sacrificio della festa e il banchetto ma anche la sua preparazione con tanto di ricette, coloriti rinfacci tra cuochi, servi e padroni, bisticci tra donne e commercianti farcite di allusioni sulla qualità e sul prezzo, soprattutto del pesce, alimento poco accessibile da gran parte della popolazione e sul quale si basa un’ampia gamma di elementi comici. In scena la carne si arrostisce o si lessa, interiora e frattaglie si fanno in umido o entrano nella preparazione di salsicce e ripieni, magari con l’aggiunta di un po’ di sangue temerariamente sottratto al sacrificio.
Sono frequenti i riferimenti agli oggetti di uso quotidiano, agli utensili impiegati per preparare, servire e consumare i pasti (forni, cucchiai, tripodi, pentole e tegami), ai dettagli e alle situazioni domestiche in cui il pubblico meno colto si riconosceva facilmente e che seguiva partecipe e divertito sgranocchiando olive, ceci abbrustoliti e noci.
Vaso con scena di teatro
Bassorilievo con maschere teatrali
 
Alcuni commediografi adottano il motivo letterario della “utopia gastronomica”, evidenziata anche da una serie di citazioni nel Deipnosofisti di Ateneo di Naucrati, in cui le ansie per le carestie e la penuria di beni alimentari vengono revocate da un universo gastronomico provvido di ogni genere di prelibatezze. È l’eterno miraggio di un Paese di Bengodi o di Cuccagna – di cui vagheggia anche Ateneo - in cui fiumi di brodo scorrono trasportando quarti di bue arrostiti, filetti di pesce, pezzi di anguille avvolti in fogli di bietola, taglieri ricolmi di cosciotti tenerissimi, interiora di bue e gustosissime costate di maiale disposte su focacce di frumento; e mentre piogge di vino e di minestra bagnano città e villaggi, il pane si impasta da solo, i tordi volano in bocca ai commensali già cotti, il clima è sempre gradevole, il piacere è un’esperienza quotidiana, e di lavorare, faticare, stancarsi nessuno ne vuole sapere.
 
In omaggio a Dioniso – il dio dell’ebbrezza che cancella i contorni razionali delle cose ma anche il dio del teatro che tramuta le cose in storie - il vino gioca nella commedia antica un ruolo significativo. In scena se ne parla spesso e se ne beve molto, puro o mescolato con acqua, pramnio rosso e forte, psìtyos passito o il dolce e bianco biblino, antenato del Moscato di Siracusa. Cornici ideali per le libagioni sono le taverne, gli angiporti, le case private e i banchetti che si concludono talvolta con farseschi symposia. L’ebbrezza, se non la sbronza è prerogativa di schiavi, operai e, spesso, di donne che bevono vino di nascosto dai mariti, difetto attribuito, come molti altri al genere femminile da Aristofane.
Costumi più castigati e personaggi stereotipati caratterizzano la cosiddetta “Commedia di mezzo” che coincide con la disastrosa spedizione ateniese contro Siracusa del 411 a.C. e che culmina nel periodo dell’oligarchia. Fu ancora un siracusano, Filèmone, a inaugurare l’epoca della “Commedia Nuova” nella quale con linguaggio meno popolare e più raffinato, si abbandona ogni tematica politica per dedicarsi alla vita di ogni giorno, dove il comico e il serio hanno uguale diritto di essere rappresentati. Elemento di spicco di questa nouvelle-vague teatrale è il cuoco, il mageiros, grande allestitore di pranzi e banchetti. A differenza di quanto accadeva nella Commedia Antica, ora si dà maggiore rilievo al lavoro creativo di questo professionista e alcuni autori come Eufronio, paragonano la sua arte a quella del poeta. Addirittura per Nicòmaco un bravo cuoco “deve sapere di geometria per muoversi armoniosamente in cucina, di medicina per vegliare la salute dei suoi commensali e perfino di astrologia per decidere sotto che segno zodiacale acquistare i pesci migliori”.
Scena Plautina, Ph. credits - musiculturaonline
 
Mettendo insieme brani delle commedie in cui la figura del cuoco un po’ sbruffone, è possibile evocare una figura di cuoco siracusano ai tempi di Gerone così come impietosamente tratteggiato nelle diverse commedie dell’epoca. Immaginiamolo seduto su una delle panchine di pietra al mercato del porto, attorniato da una schiera di assistenti armati dei loro arnesi, mentre aspetta un ingaggio rapportato al suo valore.
"Se pensate che il mestiere di cuoco sia semplice a Siracusa vi sbagliate di grosso. Qui al porto arriva gente da ogni parte del mondo e bisogna conoscere i gusti di tutti. Quelli di Rodi per esempio, come aperitivo, vogliono una tazza di vino caldo profumato di pesce, (...). Se ci metti dentro una bella seppia li fai felici (…). Quelli di Bisanzio vogliono molto aglio e un pizzichino di anice (…). I Corinzi invece della cucina ateniese non ne vogliono proprio sapere.
Poi ci vuole occhio nello scegliersi il padrone. Bisogna capire immediatamente con chi si ha a che fare (...). Può capitarti magari quello che prima ti dice grandi magnificenze della sua casa, e poi una volta la, ti trovi a dover fare tutto con le sole tue forze . Se per caso protesti un po', magari è anche capace di bastonarti, e arrivati al momento di pagare ti fa un sacco di storie, e non ti vuol dare quel che si era pattuito, solo, per esempio, con la scusa che nelle lenticchie l'aceto era poco (...). Ma oramai ho una certa pratica, e la gente di questo tipo non la prendo in considerazione. Bisogna capire a volo quali sono i clienti buoni, e non lasciarseli scappare, capire, ad esempio, quali siano quei mercanti che se ne tornano a casa col gruzzolo dopo aver fatto buoni affari qui al porto. Un cliente apprezzabile è anche lo zerbinotto di buona famiglia, colui che sta sperperando il patrimonio con le donnine allegre. (…) Non faccio per dire, ma qui in piazza sono uno dei meglio pagati. Perché so farmi una buona propaganda, e quando arrivo in casa di qualcuno mi do un certo contegno (…) riesco a sembrare importante. Se devo allestire un banchetto, mi sento un po' come un generale: distribuisco incombenze, ordini precisi, grido, urlo, e magari al momento giusto, lascio andare qualche scappellotto (…). Questa è anche la tecnica più sicura per tener lontani dalle cucine i padroni di casa (…).
Non vi dico che cucine trovo. Sfornite di tutto, senza aceto, senza semi di finocchio, senza origano, senza foglie di fico per fare gli involtini di carne, senza olio, ne mandorle, ne aglio, ne mosto cotto, ne porri, ne cipolle! Silfio non c'èmai, e mancano persino il sale e la legna... Mi debbo portar sempre tutto (…). Non per vantarmi, ma io sono uno dei pochi cuochi veramente seri della piazza. Non come certi miei colleghi, sempre con la goccia al naso, raffreddati, che non hanno l'odorato e non possono aspirare e giudicare l’odore delle loro salse. Ce ne sono che hanno il gusto addirittura depravato, e adoperano la lingua per tutt'altri affari che di cucina (…). Altri si lasciano andare troppo con il sale, altri ancora sono talmente golosi che alla fine, a forza di assaggi, lasciano le pentole quasi vuote. Poi c’è sempre qualche infoiato che si perde dietro a qualche servitorello, o a una balia della casa e intanto lascia bruciare la roba sui fornelli (…) senza parlare di quelli che non sopportano né il fumo né il fuoco e si riducono in lacrime e con gli occhi rossi sin da sembrare un mascherone da tragedia.
Spero vi sarete resi conto che io, senza difetti, quasi, sono il numero uno dei cuochi siracusani. Nella mia professione ho guadagnato più di quanto possa mai guadagnare uno dei nostri più celebri attori in tutta la sua vita (…). La mia arte si svolge in un impero di fumi profumati. Sono anche un inventore, perchè sono stato io a inventare l'uso della lenticchia reale in casa di Agatocle. Ma ho fatto anche di meglio: si parla tanto di un tal Lacares, al quale, essendo generoso con gli amici in tempo di carestia, capitò di dare da mangiare a Minerva in incognito (…) io invece, altro che Minerva, io nutro Zeus con tutta la sua combriccola degli Olimpici (…) il dio tonante oramai non vuol nutrirsi che del fumo dei miei fornelli (…). Praticamente ce l’ho in pugno e se non cucino io morirà di fame!"
Marzo 2021
 
SERGIO G. GRASSO

Da giovane, doppiava per il cinema attori del calibro di Orson Welles e Jeff Goldblum. Autore e conduttore televisivo, ha lavorato a programmi Rai come Unomattina, Lineaverde e La prova del cuoco. È docente di Antropologia dell’alimentazione, food-writer, cultore e divulgatore di storia sociale del cibo, curatore di eventi gastronomici legati alle rappresentazioni del cibo nell’arte. Scrive e fa parte della direzione editoriale di SiracusaCulture.