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Ph. © dal film I Fidanzati

Ermanno Olmi, la Città d’acciaio e le Saline

 
Chi giunge a Siracusa da nord si trova a costeggiare per chilometri un paesaggio di ferro e di fuoco, come scrive Vincenzo Consolo nel suo Le pietre di Pantalica. Sono gli impianti del polo petrolchimico di Melilli, Priolo e Augusta, che dalla seconda metà del secolo scorso hanno segnato profondamente il nostro territorio. Nel 1960, ad un decennio dall’inizio delle attività industriali in quell’ampia fascia costiera, la Edison Volta produce un cortometraggio, intitolato “La città d’acciaio”, affidandone la regia ad un giovane cineasta bergamasco: Ermanno Olmi. Viene così confezionato un filmato che risponde alle esigenze della committenza: mettere in luce i benefici che l’industrializzazione produce sul tessuto socio-economico del comprensorio interessato; presentare il processo in atto come espressione di una modernità che si innesta sulla ciclicità del mondo contadino. Ma a lavoro compiuto, Olmi prosegue autonomamente l’indagine sugli effetti prodotti da quella trasformazione, elaborando il progetto di un’opera svincolata dagli interessi della committenza industriale.
Così nel 1962, a 2 anni di distanza dalla realizzazione di quel documentario, Olmi torna tra gli impianti del petrolchimico con l’intenzione di realizzare un film “a soggetto”, che racconti una storia capace di mostrare un paesaggio naturale e umano osservato con altri occhi: ne nascerà il film “I fidanzati”, presentato in concorso al Festival di Cannes del 1963. Vi si narra la storia di Giovanni, un operaio del nord, che accetta di buon grado il trasferimento in Sicilia, grazie al quale potrà ottenere un trattamento economico più vantaggioso. Dovrà però rimanere lontano dal padre ammalato e da Liliana, la sua fidanzata, che ha tentato invano di dissuaderlo, perché teme che il loro rapporto possa entrare definitivamente in crisi. Ma Giovanni non intende rinunciare a questa opportunità e non è neppure granché dispiaciuto di allontanarsi da una relazione di cui forse è già stanco. Si trova allora catapultato in un ambiente per lui del tutto nuovo, di cui osserva le trasformazioni in atto. Saranno la distanza e il disagio ad indurlo a riconsiderare il rapporto con Liliana e a rinsaldare l’affetto tra i due.
 
Ma al di là della storia sentimentale che incornicia la narrazione, il vero “soggetto” che occupa il centro dell’opera è il mutamento innescato da una folgorante industrializzazione; il passaggio traumatico e repentino da una civiltà contadina ad un sistema di produzione industriale. Il film è interessante anche per la scelta di mostrare questo cambiamento attraverso lo sguardo straniante di un personaggio (il protagonista) esterno all’ambiente rappresentato.
Cosa vede, allora, Giovanni? All’inizio egli coglie soltanto la macroscopica distanza che esiste tra la “mentalità industriale” e quella di un mondo contadino, legato da sempre ai cicli della natura. Sono diverse le scene (alcune con risvolti che sfociano nella comicità) che sottolineano la sostanziale inadeguatezza della gente del sud alle regole e ai ritmi imposti dalla produzione industriale: come quando una giovane ragazza neoassunta si presenta in fabbrica accompagnata da tutta la famiglia vestita a festa, quasi stesse andando ad un ballo o a un matrimonio; o quando gli altri operai del nord sottolineano ridendo che nei giorni di pioggia i loro compagni meridionali non si presentano a lavoro, perché quando piove il lavoro (dei campi) si ferma. In questa prospettiva, la cultura industriale viene a porsi, dunque, come l’unica via di accesso alla modernità.
Ma all’interno di questa narrazione “monologica” si verifica una svolta, capace di imprimere nuovi significati alla rappresentazione della realtà che il film ci offre. Si tratta di appena 18 inquadrature segnate da lenti movimenti di macchina. In questo breve spazio visivo, la colonna sonora si affida solo a suoni analogici, come il rumore dell’acqua che scorre muovendo le ruote di un mulino, mentre sullo schermo si alternano campi lunghi e primissimi piani. Nell’intera sequenza non vi sono parole: solo un “buongiorno”, pronunciato da Giovanni, che resta però inascoltato. Dove si trova Giovanni? Passeggiando sulla spiaggia di Fondaco Nuovo, il nostro operaio giunge improvvisamente in mezzo alle saline di Priolo, dove ferve la lavorazione dei “salinari”.
 
Ciò che adesso si mostra ai suoi occhi è un altro mondo, che viene da lontano, coi suoi ritmi, con il suo ordine regolare, i suoi gesti sapienti; un mondo fatto di fatica e di dignità, di organizzazione e tecnica, che dice altro rispetto a quanto sinora osservato. È come se la storia di quella terra, a lui estranea, avesse per un momento reclamato la parola, per dire che la cultura del lavoro, seppur diversa da quella generata dal mondo industriale, ha radici profonde anche in questa terra e viene da lontano. Il film assume così, in questo breve spazio visivo, un pieno valore antropologico e riesce a mostrare ciò che Olmi aveva dovuto tacere ne “La città d’acciaio”, tanto da indurlo a rimettere in moto la sua cinepresa, ridando voce a quel mondo nascosto.
 
Accade così che l’occhio della cinepresa agisca sullo spettatore, provocando con la forza delle immagini uno “slittamento” dello sguardo. Attraverso l’occhio di Giovanni si mette in moto in noi un nuovo sguardo. Quel “paesaggio umano” ci rimanda un’immagine che tende a sgretolare incrostazioni mentali per dare vita ad una nuova dimensione di senso, che accosta “vecchio” e “nuovo” senza una gerarchia di valori precostituita. Olmi, dopo aver costruito un racconto “monologico”, lascia irrompere nella narrazione una parola “altra”, che incrina il senso del già detto e apre ad una dimensione “dialogica”, che investe lo spettatore e lo chiama ad uno sforzo d’interpretazione.
Ecco allora che attraverso la visione di questo film (che ci mostra anche il volto di una città che non c’è più: piazza della Vittoria prima degli scavi archeologici; piazza Euripide con la chiesa della Madonnina e la linea ferrata che taglia in due la città), siamo indotti a riflettere sul nostro passato, a considerare il nostro presente e ad interrogarci sul nostro futuro. Che lo si faccia grazie ad un film non è cosa da poco: ma è questo in fondo ciò che si chiede alle opere che hanno spessore culturale e che nascono da una necessità.
Gennaio 2021
 
FRANCESCO ORTISI

Insegna Lettere al Liceo “Quintiliano” di Siracusa. Ha pubblicato il saggio Siracusa, si gira! per Emanuele Romeo Editore sui film girati nel territorio aretuseo dal secondo dopoguerra al 2000 e la Movie map Sicilia, una guida ai set cinematografici dell’Isola. Si è occupato di linguaggio cinematografico nella pratica didattica. È stato assessore ai Servizi culturali del Comune di Siracusa dal 1994 al 1998.